I consumi di pesce aumentano mentre la pesca cala continuamente. In vent’anni abbiamo perso oltre il 60% del pescato. Come mai? È stata una politica scellerata di sfruttamento dei mari da parte dei pescatori a provocare il disastro o dipende da altri fattori? A dare risposte a questa domanda sono intervenuti Corrado Piccinetti, responsabile scientifico settore pesca – già professore associato e responsabile del laboratorio – Dip. BiGeA Alma Mater Studiorum, e Nando Fiorentini, ex pescatore professionista e Category settore ittico Eataly, in occasione della 5° edizione di Seafood Summit, l’evento che ha portato a dibattito aziende, istituzioni e mondo Retail in un contesto focalizzato, sotto l’egida della rivista MARK UP. Co-organizzatore dell’evento è stato Chiodi Consulting. Gabriele Chiodi, fondatore della società riminese di consulenza per l’accesso a fondi strutturali specializzata nel settore agroalimentare e nell’ittico in particolare, ha moderato alcune fasi della mattinata di lavori.
“Il problema è complesso, ci sono tante variabili da considerare –ha esordito Piccinetti. Gli indicatori sul pescato ci dicono che tra il 1970 e il 2000, tutti gli anni, l’Italia ha pescato tra le 400-450.000 tonnellate di pesce. Nel 2020 ne ha pescate 130.000, vale a dire solo un terzo di quello che è stato pescato per 30 anni in maniera continuativa. Ciò significa che in questi 30 anni i pescatori hanno pescato eccessivamente? O hanno condotto la pesca in modo sbagliato? No. I pescatori erano tenuti a seguire regole variabili secondo i tempi e la sensibilità di chi le istituiva. Per ‘regole’ si intende quanti giorni è possibile pescare, quante barche possono essere attive, quanto tempo ci si deve fermare. Un tempo si pescava sette giorni su sette, poi è stata tolta la domenica, in seguito il sabato e poi anche il venerdì, fino a introdurre anche il fermo di pesca. Ovviamente riducendo i giorni, anche il quantitativo di pescato diminuisce. È stato poi imposto di modificare le maglie delle reti per evitare la cattura di pesci piccoli. Giustissimo. Ma ci sono pesci che sono piccoli anche da adulti, quindi non restano più nelle reti che hanno maglie larghe. Le regole con cui si fa la gestione della pesca cambiano con il tempo e ciò ha imposto dei limiti consecutivi tali che si è ridotto il tempo di pesca e la quantità. E si è ridotto anche il numero delle barche, passato da 19.000 alle attuali 12.000 circa.
Le norme imposte dall’Unione Europea tramite la Direzione generale della pesca seguono una filosofia non adatta al Mediterraneo. Si tratta infatti di un mare ricco di biodiversità, vale a dire che ospita contemporaneamente varie specie che hanno cicli biologici molto diversi fra loro. Chi ha istituito le regole per la pesca ha gestito tutta questa biodiversità come se fosse un’unica specie, con le medesime caratteristiche, che vive lo stesso numero di anni. Oltre alle differenze di specie, va considerata anche la differenza delle tecniche di pesca: le piccole barche pescano con reti da posta, diversamente fa il grosso peschereccio che va a pescare il pesce azzurro. Fanno produzioni diverse. Delle attuali 12.000 barche di cui consta la flotta di pescherecci italiana attualmente, più di 8000 sono piccole, sotto i 12 metri e si dedicano alla piccola pesca”. Si tratta quindi di una situazione che include diverse variabili a cui non è possibile applicare norme generalizzate a livello europeo senza arrecare danni.
“Il mondo della pesca è cambiato molto – ha replicato Nando Fiorentini. La grande responsabilità di come sono andate la cose è da imputare a politiche molto superficiali. Negli anni dall’80 al 2000 la Comunità Europea ha portato avanti una politica di finanziamenti per l’ammodernamento delle barche: sono stati finanziati motori più potenti, l’acquisto di barche più grandi. In particolar modo si è voluto uniformare le disposizioni delle leggi in tutta Europa in maniera molto similare. Così facendo sono state messe in funzioni delle reti che potevano risultare a basso impatto ambientale in Norvegia o nei Mari del Nord, ma nel Tirreno diventavano altamente distruttive. Queste regole di pesca non adatte ai nostri mari hanno portato all’impoverimento di alcuni stock di pesce. In aggiunta, i pescatori sono davvero pochi. Non c’è stato cambio generazionale perché è un lavoro impegnativo. C’è stata poi una grande rottamazione di barche per via della campagna europea, e quindi è calato molto il volume del pescato.
In Eataly abbiamo implementato una cultura per valorizzare i prodotti tramite la realizzazione di un calendario che illustra al consumatore la stagionalità del pesce. Abbiamo inoltre realizzato un manifesto volto a tutelare alcuni pesci in sofferenza, decidendo di escludere alcune zone di approvvigionamento perché ultimamente non sono in salute come dovrebbero. Viene fatta molta informazione al consumatore, anche tramite incontri dove raccontiamo le nostre vedute e decisioni e dove offriamo la possibilità di provare esperienze emozionali, facendo assaggiare pesce cucinato e spiegando che in alcuni periodi dell’anno è più buono rispetto ad altri. Ogni pesce ha la sua stagionalità, ma non in un’ottica di quantità pescate, bensì del momento migliore per consumarlo. Ad esempio, pensare di pescare l’orata nel mese di novembre perché è abbondantissima non è più sostenibile, perché in quel periodo viene sotto costa per la riproduzione. È meglio pescarla in primavera perché ha le carni più grasse, ricche di omega tre, è più buona e consumarla fa meglio.
Alla domanda su come sia possibile sincronizzare produzione e distribuzione al fine di limitare gli squilibri ambientali e gestire al meglio la biomassa, Piccinetti ha spiegato che “l’esempio di Pam, che prevede già un accordo per acquistare tutta la produzione di alcuni pescherecci a Chioggia, nel Tirreno e altrove, è ottimale ai fini di sincronizzare la produzione con la commercializzazione evitando altri complessi passaggi. Ciò significa avere la conoscenza della qualità del pescato. Le alici del Tirreno e dell’adriatico non hanno lo stesso sapore, perché vivono in ambienti diversi, a differenti salinità e con differente disponibilità di cibo, il plancton. Il tempo minimo tra la pesca e l’arrivo sul banco del pesce è un fattore importante. Il sistema migliore è collegare produzione-distribuzione-utilizzo del prodotto, informando sulle caratteristiche che devono avere questi prodotti.”
Il modo di approvvigionamento in Eataly è un po’ alternativo -ha risposto Fiorentini. Noi contiamo molto sulla formazione del personale di pescheria a cui insegniamo a eseguire un controllo qualitativo molto dettagliato. E in aggiunta i nostri punti vendita si approvvigionano nei mercati ittici alla produzione -vale a dire dove arrivano i pescatori e fanno l’asta- più vicini a loro, quindi Roma su Fiumicino e su Porto Ercole, Torino sulla Liguria, Imperia e Savona, poi Milano sempre su Imperia e Savona e in aggiunta il mercato ittico di Milano dove c’è un arrivo dall’estero molto importante, probabilmente il miglior pesce che c’è in Europa per quanto riguarda il pesce che arriva da fuori. Credo che l’evolversi della pescheria nel retail sia molto legato al servizio: è molto importante per il consumatore finale avere un prodotto il più possibile pronto da cucinare e con tutte le indicazioni di cui può avere bisogno per farlo. In aggiunta, in Eataly, con la ristorazione abbiamo la possibilità di far provare delle ricette ai consumatori. Credo che questo sia il futuro del comparto. Riguardo il delivery, abbiamo visto che durante il lockdown la voglia di consumare era comunque molta, infatti abbiamo registrato un picco importante nelle vendite online. Il cliente -ha concluso Fiorentini- ha dimostrato moltissima fiducia ordinando il prodotto che arrivava a casa senza averlo prima visto sul banco. Credo che il picco di lavoro nel primo lockdown sia stato un parametro un po’ alto, tuttavia penso che il futuro sia anche nel delivery.”
Laura Seguso